Prima e dopo il terremoto: il castello di sabbia della Strategia per le aree interne - Simone Vecchioni per Lo stato delle cose


Le Aree Interne rappresentano una parte ampia del Paese – circa tre quinti del territorio e poco meno di un quarto della popolazione – assai diversificata al proprio interno, distante da grandi centri di agglomerazione e di servizio e con traiettorie di sviluppo instabili ma tuttavia dotata di risorse che mancano alle aree centrali, con problemi demografici ma anche fortemente policentrica e con forte potenziale di attrazione. (Agenzia per la Coesione Territoriale del Governo Italiano)


Le aree interne del nostro Paese rappresentano uno dei temi del discorso pubblico in cui parole e interventi reali sono due rette parallele che non si incontrano mai e, per fare della triste e trita ironia, se si incontrano non si salutano.


Nell’ultimo anno questo tema è tornato alla ribalta con le scosse di terremoto che fra il 2016 e il 2017 hanno colpito una porzione quanto mai estesa del territorio del Centro Italia, aree interne per l’appunto. Quei territori forse rappresentano meglio di qualunque altro luogo, in maniera evidente, il ritardo e gli errori grossolani commessi negli anni in merito agli interventi sul tema. Territori che dopo 15 mesi si ritrovano con macerie nelle strade, migliaia di sfollati, paesi scomparsi e strade chiuse. Quelle stesse strade che erano l’unico strumento attraverso il quale la maggioranza delle persone avevano un accesso, anche se parziale e parcellizzato per le cosiddette aree interne.

Quando dalle città si decide di passare una domenica in campagna lontano dalla frenesia e dallo smog si imboccano strade sempre più strette, le tre corsie diventano due, poi una, la strada è abbandonata dalla segnaletica orizzontale, i più coraggiosi imboccano una strada bianca. Crocevia dopo crocevia raggiungiamo “le aree interne”, terre di nessuno, oggetto di studi sociologici e narrazioni bucoliche, aggredite o abbandonate, patria ante litteram della tipicità, dietro l’angolo o a centinaia di chilometri, rifugio e prigione.

Questi territori si trovano loro stessi in prima persona dinanzi a un bivio, e la strada che sceglieranno (o che qualcuno vorrà imporre loro) di imboccare al crocevia non sarà per loro senza conseguenze.
Come al solito prima di partire proviamo a definire l’ambito. La definizione che viene data delle “Aree Interne” nelle politiche nazionali ed europee si basa essenzialmente sulla situazione di svantaggio, di “limite” per quanto riguarda servizi e prospettive. Poco si tiene conto della questione geografica e spesso la montagna viene tenuta fuori da questa definizione. Nel nostro caso invece useremo il termine Aree Interne in modo lasco, principalmente geografico, per identificare tutte quelle aree lontane dai centri abitati e dalle zone urbane più popolose, montagna compresa quindi. E’ facile capire perciò come all’interno di questa categoria ci siano territori con caratteristiche e situazioni alquanto diverse tra loro. Questo cambio di paradigma va fatto in quanto esso stesso contestazione dell’approccio che è stato tenuto fino ad ora nelle analisi di chi si è imbattuto, calando dall’alto, su questo tema.




Vaste aree del nostro Paese hanno nei decenni mantenuto una certa autenticità, qualcosa che spesso viene scambiata con l’arretratezza. Sia ben chiaro, un’autenticità non statica o antistorica, ma a sua volta mutevole e condizionata dagli eventi esattamente come qualsiasi altro luogo del mondo globalizzato. Tuttavia le condizioni morfologiche e sociali di quei territori hanno preservato spesso caratteristiche “altre” rispetto ai luoghi urbani più antropizzati. Non si vuole con questo generalizzare, molte aree interne hanno già scelto (o qualcuno l’ha scelto per loro) un percorso in maniera netta e hanno già identità ben definite e molto chiare. Per quanto riguarda le altre, se fino a qualche decennio fa si poteva pensare di tenerle nascoste e al riparo, ora è il tempo delle scelte. Sempre più spesso infatti, in ogni angolo di questo stivale sempre più usurato e poco curato, le aree interne sono oggetto di interessi e speculazioni, aggressioni di ogni tipo che ne mettono a repentaglio la storia e il patrimonio naturalistico ma non solo.

Se diamo per assodato il fatto che la nebbia che le teneva nascoste si è diradata e che ora l’Occhio di Mordor guarda anche da quella parte, cosa difficile da smentire, non possiamo che ripetere che la scelta è d’obbligo. Ma la scelta tra cosa? Cosa indicano i cartelli nel crocevia che le aree interne si trovano di fronte?

La prima strada porta verso uno sviluppo dettato dalle logiche del profitto di chi ne vorrebbe fare un’enorme seconda casa diffusa a uso e consumo di un turismo invasivo e predatorio che non tiene conto delle reali caratteristiche del luogo. Un turismo che trasforma il territorio in un’immagine fantoccio di se stesso, una rappresentazione finta, statica e rassicurante che azzera differenze e peculiarità sedimentate nei millenni. Percorrendo questa strada si avranno luoghi sempre uguali a se stessi, irreali, trasformati nell’immagine che il turista ha di loro piuttosto che vissuti nella loro vita reale. Una sorta di palla di vetro, di quelle con babbo natale al suo interno e la neve finta che scende ogni volta che la scuoti. Colline tutte uguali, con borghi tutti uguali, nei quali acquistare vini tutti uguali con buona pace della biodiversità e della complessità che quel territorio avrebbe potuto esprimere o ha espresso per secoli. Una mera propaggine delle città, con le stesse logiche, gli stessi ritmi e lo stesso approccio al consumo.

Un’altra faccia della stessa medaglia, o se vogliamo proseguire con la metafora stradale un’altra strada che porta nella stessa direzione è quell’aggressione brutale e senza fronzoli delle grandi opere. “Qui una volta era tutta campagna” sembra la classica frase romantica e abusata ma in realtà pedemontane, trafori, gasdotti, impianti di risalita, aree industriali, stazioni dell’alta velocità e via discorrendo, a seconda della morfologia dell’area interna di cui parliamo stanno marciando ad ampie falcate verso terre rimaste “salve” fino a pochi anni fa. Da questo punto di vista occorre precisare che porre il discorso nei termini di una dicotomia progresso/abbandono è sbagliato in partenza, è una falsa scelta basata su un ricatto di fondo. I territori in cui si vogliono fare queste opere necessitano in primis di servizi alla persona e di un welfare efficiente ed efficace, anziché di progetti spesso pensati decenni fa con condizioni economiche completamente diverse e previsioni di andamenti risultati poi completamente sballati. Volendo tornare alla situazione post terremoto sarebbe inoltre fin troppo facile chiedere che, anziché costruire nuove arterie, vengano messe in sicurezza quelle strade che da mesi e mesi sono ancora chiuse per frane e smottamenti.



Sulla stessa lunghezza d’onda viaggia un’altra problematica: l’accumulazione di proprietà terriere da parte di grandi gruppi che sono agevolati dallo spopolamento e dell’invecchiamento della popolazione contadina. Questo aspetto va tenuto in seria considerazione, in quanto legato fortemente allo sfruttamento delle linee di finanziamento delle aree interne rurali. Aiuti economici che in teoria dovrebbero sostenere chi realmente contribuisce allo sviluppo e alla conservazione del territorio ma che rischiano di dare la stura a una speculazione finanziaria fatta attraverso la terra. In questo settore come in altri non saranno sicuramente contributi erogati a pioggia, senza una reale conoscenza del quadro d’insieme, a risollevare situazioni compromesse o a salvaguardare territori a rischio. Basti pensare ai meccanismi di assegnazione dei fondi dei Psr (Programmi di sviluppo rurale) che destinano centinaia di milioni di euro spesso con finalità che hanno ben poco a che fare con le reali necessità dei luoghi a cui andrebbero destinati, escludendo spesso di fatto gli attori locali sul territorio.

Allo stesso tempo occorre dare dei punti di riferimento anche per quanto riguarda i fondi stanziati, poche settimane fa è stata data molta enfasi all’approvazione della legge cosiddetta “Salva borghi”. Con questo intervento si stanziano 100 milioni di euro sino al 2023 per interventi “per lo sviluppo strutturale, economico e sociale dei piccoli comuni per il finanziamento di investimenti per l’ambiente e i beni culturali, la salvaguardia e la riqualificazione dei centri storici, la messa in sicurezza delle infrastrutture stradali e delle scuole e l’insediamento di nuove attività produttive”. Cento milioni di euro! La pedemontana in fase di realizzazione nelle Marche terremotate, progetto vecchio di decenni che dovrebbe collegare Fabriano con la superstrada Foligno-Civitanova (contro il quale si batte un comitato di cittadini da anni), costa da sola 220 milioni di euro. Il paragone è impietoso.

Poco sopra si accennava a strade e territori colpiti dal terremoto, sì perché la via che abbiamo intrapreso conduce anche lì. Tutti i punti tracciati trovano in questo momento un luogo centrale, terreno di sperimentazione di uno sviluppo malato ma anche spazio del possibile che potrebbe essere. Questo luogo è l’Appennino centrale, a cui abbiamo già accennato, colpito dalle scosse del terremoto e tuttora in piena emergenza. In questi luoghi a cavallo dei Sibillini, dei Monti della Laga e del Gran Sasso si stanno testando politiche aggressive e lassiste che potrebbero essere esportate anche nel resto del Paese. Al tempo stesso si stanno sviluppando però reti e rapporti emersi inaspettatamente, tutti insieme, chiaramente contraddittori ed embrionali, che agiscono con conflittualità sul presente e che potrebbero rappresentare l’unica ancora di salvezza. Queste esperienze non sono naturalmente un unicum in Italia, da Santa Maria di Leuca ad Aosta comitati e associazioni resistono ad aggressioni di qualsiasi natura immettendo tasselli che compongono un quadro diverso da quello che sembra inevitabile.



Qual è allora la strada da intraprendere per preservare i territori? Probabilmente è proprio quella che passa attraverso un nuovo protagonismo sociale e culturale, una nuova presa di parola di chi vive nelle terre di mezzo e nelle terre alte. Una strada che non può prescindere dalla contestazione di questo modello di sviluppo e che deve partire dall’analisi delle aree interne come parte del tutto e non come luogo a sé, lontano e irraggiungibile. Far finta che le aree interne siano una sorta di riserva indiana con problemi e soluzioni indipendenti significa prendersi e soprattutto prendere in giro. Lo stato di quelle aree deriva in larga parte da processi funzionali e propedeutici al loro sfruttamento (che può anche declinarsi nell’abbandono) ottimale da parte di processi economici globali che trovano, loro sì, le declinazioni più efficienti a livello locale. Parlare di aree interne come se il discorso fosse slegato dai cambiamenti climatici o dal funzionamento del mondo del lavoro e del welfare è, ancora una volta, pura fantasia. Basterebbe vedere la Basilicata e il suo rapporto con il petrolio, i recenti incendi estivi in Abruzzo o in Val di Susa.

Occorre quindi rovesciare il piano: partire da quei territori come portatori sani di peculiarità ancora inespresse per aggredire un disegno che muove in direzione contraria rispetto al quale la cosiddetta strategia per le Aree interne è forse la foglia di fico che cela qualcos’altro. La strategia dell’abbandono, per esempio?

Perché non è più il tempo di nascondersi. Perché nessuno può più illudersi che l’abuso di parole come ecosostenibilità, tipicità e sviluppo sostenibile possa da solo essere salvifico. La sfida quindi è quella di riuscire a salvaguardare “l’arretratezza”, la complessità e la conflittualità dei luoghi garantendo una vita degna, lavorando sul futuro senza però snaturare i territori. Ma è una partita che andrà giocata in prima persona perché non ci si può più permettere di farsi indicare la strada da altri.

Simone Vecchioni per Lo stato delle cose
Foto Michele Massetani

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